by Trullo » Thu 26 March 2020; 13:23
Io abitavo al Boscaccio, nella Bassa, con mio padre, mia
madre e i miei undici fratelli: io, che ero il più vecchio, toccavo appena i dodici anni e Chico che era il più giovane toccava appena i due. Mia madre mi consegnava ogni mattina
una cesta di pane, un sacchetto di mele o di castagne dolci,
mio padre ci metteva in riga nell'aia e ci faceva dire ad alta
voce il Pater Noster: poi andavamo con Dio e tornavamo al
tramonto.
I nostri campi non finivano mai e avremmo potuto correre anche una giornata intera senza sconfinare. Mio padre
non avrebbe avuto neppure mezza parola anche se noi gli
avessimo calpestato tre intere biolche di frumento in germo-
glio o se gli avessimo divelto un filare di viti. Eppure noi
sconfinavamo sempre e ci davamo parecchio da fare. Anche
Chico, che aveva due anni appena e aveva la bocca piccolina
e rossa e gli occhi grandi con lunghe ciglia e ricciolini sulla
fronte come un angioletto, non si faceva certamente scappare
un papero quando gli arrivava a tiro.
Poi, ogni mattina, appena partiti noi, venivano alla fattoria delle vecchie con sporte piene di paperi, di gallinelle, di
pulcini assassinati, e mia madre, per ogni capo morto, dava
un capo vivo.
Noi avevamo mille galline che razzolavano per i nostri
campi, ma quando si doveva mettere qualche pollo a bollire
nella pentola, bisognava comprarlo.
Mia madre scuoteva il capo e continuava a cambiare paperi vivi con paperi morti. Mio padre faceva la faccia scura,
si arricciava i lunghi baffi e interrogava brusco le donnette
per sapere se si ricordavano chi dei dodici era stato a fare il
colpo.
Quando qualcuna gli diceva che era stato Chico, il più
piccolino, mio padre si faceva raccontare per tre o quattro
volte la storia, e come aveva fatto a lanciare il sasso, e se era
un sasso grosso, e se aveva colpito il papero al primo colpo.
Queste cose le ho sapute tanto tempo dopo: allora non ci
si pensava. Ricordo che una volta mentre io, lanciato Chico
contro un papero che passeggiava come uno stupido in mezzo a un praticello spelacchiato, stavo con gli altri dieci appo-
stato dietro un cespuglione, vidi mio padre a venti passi di
distanza che fumava la pipa all'ombra di una grossa quercia.
Quando Chico ebbe spacciato il papero, mio padre se ne
andò tranquillamente con le mani in tasca e io e i miei fratelli
ringraziammo il buon Dio.
«Non si è accorto di niente» dissi io sottovoce ai ragazzi. Ma allora io non potevo capire che mio padre ci aveva pedinati per tutta la mattinata, nascondendosi come un ladro,
pur di riuscire a vedere come Chico ammazzava i paperi.
Ma io sto uscendo dal seminato: questo è il difetto di chi
ha troppi ricordi.
Io devo dirvi che il Boscaccio era un paese dove non
moriva mai nessuno, per via di quell'aria straordinaria che vi
si respirava.
Al Boscaccio sembrava quindi impossibile che un bambino di due anni potesse ammalarsi.
Invece Chico si ammalò sul serio. Una sera, mentre stavamo per tornare a casa, Chico si sdraiò improvvisamente
per terra e cominciò a piangere. Poi smise di piangere e si
addormentò. Non si volle svegliare e io lo presi in braccio.
Chico scottava, sembrava pieno di fuoco: allora noi tutti
provammo una paura terribile. Il sole tramontava e il cielo
era nero e rosso, le ombre lunghe. Abbandonammo Chico in
mezzo all'erba e fuggimmo urlando e piangendo come se
qualcosa di terribile e di misterioso ci inseguisse.
«Chico dorme e scotta… Chico ha il fuoco dentro la testa!» singhiozzai io appena mi trovai davanti a mio padre.
Mio padre, lo ricordo bene, staccò la doppietta dalla parete, la caricò, se la mise sottobraccio, e ci seguì senza dir
nulla, e noi camminammo stretti attorno a lui e non avevamo
più paura perché nostro padre era capace di fulminare un leprotto a ottanta metri di distanza.
Chico era abbandonato in mezzo all'erba scura, e con la
sua lunga veste chiara e i suoi ricciolini sulla fronte sembrava un angelo del buon Dio cui si fosse guastata un'aluzza e
che fosse caduto nel trifoglio. Al Boscaccio non moriva mai
nessuno, e quando la gente seppe che Chico stava male, tutti
provarono un enorme sgomento. Anche nelle case si parlava
sottovoce. Per il paese bazzicava un forestiero pericoloso e
nessuno di notte si azzardava ad aprire una finestra per paura
di vedere, nell'aia imbiancata dalla luna, aggirarsi la vecchia
vestita di nero e con la falce in mano.
Mio padre mandò a prendere col calessino tre o quattro
dottori famosi. E tutti toccarono Chico e gli appoggiarono
l'orecchio alla schiena, poi guardarono mio padre senza dir
niente.
Chico continuava a dormire e a scottare, e il suo viso era
diventato più bianco del lenzuolo. Mia madre piangeva in
mezzo a noi e non voleva più mangiare; mio padre non si sedeva mai e continuava ad arricciarsi i baffi, senza parlare.
Il quarto giorno i tre ultimi dottori, che erano arrivati insieme, allargarono le braccia e dissero a mio padre:
«Non c'è che il buon Dio che possa salvare il vostro
bambino».
Ricordo che era mattina: mio padre fece un cenno con la
testa e noi lo seguimmo nell'aia. Poi con un fischio chiamò i
famigli: erano cinquanta fra uomini, donne e bambini.
Mio padre era alto, magro e potente, con lunghi baffi,
un grande cappello, la giacca attillata e corta, i calzoni stretti
alla coscia e gli stivali alti. (Da giovane mio padre era stato
in America, e vestiva all'americana.) Faceva paura quando si
piantava a gambe larghe davanti a qualcuno. Mio padre si
piantò a gambe larghe davanti ai famigli e disse:
«Soltanto il buon Dio può salvare Chico. In ginocchio:
bisogna pregare il buon Dio di salvare Chico».
Tutti ci inginocchiammo e cominciammo a pregare ad
alta voce il buon Dio. Le donne dicevano a turno delle cose e
noi e gli uomini rispondevamo: «Amen».
Mio padre rimase a braccia conserte, fermo come una
statua davanti a noi fino alle sette di sera, e tutti pregavano
perché avevano paura di mio padre e perché volevano bene a
Chico.
Alle sette di sera, mentre il sole cominciava a tramontare, venne una donna a chiamare mio padre. Lo seguii.
I tre dottori erano seduti pallidi attorno al letto di Chico:
«Peggiora» disse il più anziano. «Non arriverà a domattina.»
Mio padre non disse nulla, ma sentii che la sua mano stringeva forte la mia.
Uscimmo: mio padre prese la doppietta, la caricò a palla, se la mise a tracolla, prese un grosso pacco, me lo consegnò.
«Andiamo» disse.
Camminammo attraverso i campi: il sole si era nascosto
dietro l'ultima boscaglia. Scavalcammo il muretto di un giardino e bussammo a una porta.
Il prete era solo in casa e stava mangiando al lume della
lucerna. Mio padre entrò senza levarsi il cappello.
«Reverendo» disse mio padre «Chico sta male e soltanto
il buon Dio può salvarlo. Oggi, per dodici ore, sessanta persone hanno pregato il buon Dio, ma Chico peggiora e non arriverà a domattina.»
Il prete guardava mio padre con gli occhi sbarrati.
«Reverendo» continuò mio padre «tu soltanto puoi parlare al buon Dio e fargli capire come stanno le cose. Fagli
capire che se Chico non guarisce io gli butto all'aria tutto. In
quel pacco ci sono cinque chili di dinamite da mina. Non resterà più in piedi un mattone di tutta la chiesa. Andiamo!»
Il prete non disse parola: si avviò seguito da mio padre,
entrò in chiesa, si inginocchiò davanti all'altare, giunse le
mani.
Mio padre stava in mezzo alla chiesa, col fucile sottobraccio, a gambe larghe, piantato come un macigno. Sull'altare ardeva una sola candela e tutto il resto era buio.
Verso mezzanotte mio padre mi chiamò:
«Va' a vedere come sta Chico e torna subito».
Volai fra i campi, arrivai a casa col cuore in gola. Poi ritornai e correvo ancora più forte.
Mio padre era ancora lì, fermo, a gambe larghe, col fucile sottobraccio, e il prete pregava bocconi sui gradini dell'altare.
«Papà» gridai col mio ultimo fiato. «Chico è migliorato!
Il dottore ha detto che è fuori pericolo! Il miracolo! Tutti ridono e sono contenti!»
Il prete si alzò: sudava e il suo viso era disfatto.
«Va bene» disse bruscamente mio padre.
Poi, mentre il prete guardava a bocca aperta, si tolse dal
taschino un biglietto da mille e l'infilò nella cassetta delle
elemosine.
«Io i piaceri li pago» disse mio padre. «Buona sera.»
Mio padre non si vantò mai di questa faccenda, ma al
Boscaccio c'è ancora oggi qualche scomunicato il quale dice
che, quella volta, Dio ebbe paura.
Questa è la Bassa, terra dove c'è gente che non battezza
i figli e bestemmia non per negare Dio, ma per far dispetto a
Dio. E sarà lontana quaranta chilometri o meno dalla città,
ma, nella piana frastagliata dagli argini, dove non si vede
oltre una siepe o al di là della svolta, ogni chilometro vale
per dieci. E la città è roba di un altro mondo.
Io mi ricordo:
"Il comunismo ha sbagliato, ma non era sbagliato.“ (Rossana Rossanda)