Ultime notizie

Chiacchere in libertà

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Re: Ultime notizie

Postby brianzolo » Fri 03 July 2009; 9:51

ops :oops: però illuminava l'aria :lol:
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Re: Ultime notizie

Postby skeggia65 » Sat 04 July 2009; 0:13

brianzolo wrote:I carabinieri arrestano due anarchici "Volevano sabotare la linea ferroviaria"
Che palle. Ma sti stronzi che cosa vogliono? E perchè, nella vana speranza di ottenere qualcosa, devono tentare di creare disagi (in questo caso, ma a volte si spingono oltre) ai cittadini?
Non gradisono la società così com'è? Si contino, si rendano conto di essere quattro gatti, e se ne vadano altrove, a creare una società come la intendono loro.
Articolo 21
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Re: Ultime notizie

Postby EuroCity » Sat 04 July 2009; 11:17

A parte il fatto che quei sedicenti "anarco-insurrezionalisti", se davvero esistono (e non sono quindi un'invenzione mediatica per seminare insicurezza e FUD), stanno all'anarchismo come le BR stavano al comunismo, l'Inquisizione agli insegnamenti di Cristo o certi tipi di centri sociali al Che, ecc. ecc.: quasi nessuna correlazione, insomma; anzi, una rimozione verso una violenza inutile e controproducente per tutti.

Ma purtoppo ciò avviene anche perché la gente "normale" (sic!) spesso se ne frega della politica e della società...
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Re: Ultime notizie

Postby skeggia65 » Sun 05 July 2009; 15:03

Potresti aver ragione, ma
EuroCity wrote:
Ma purtoppo ciò avviene anche perché la gente "normale" (sic!) spesso se ne frega della politica e della società...
in questo contesto, se la maggior parte della gente "normale" decide di vivere la politica e formare una società di un certo tipo, i quattro str.... in questione non hanno nessun diritto di turbare la società, per quanto distorta, che la maggioranza della gente "normale" desidera.
E' il problema di certi individui animati da un ideale: si credono superiori agli altri, in grado solo loro di sapere qual'è il meglio per il mondo, e per questo sono disposti a far qualsiasi cosa, anche uccidere (è già capitato), pur di tentare di realizzare il proprio ideale. Che se ne vadano a fare in.....
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Re: Ultime notizie

Postby S-Bahn » Sun 05 July 2009; 16:26

E', purtroppo quasi regolarmente, il risultato delle utopie
La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che quella cosa ha un senso,
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Re: Ultime notizie

Postby EuroCity » Sun 05 July 2009; 19:39

Il sabotaggio, comunque, è soprattutto una tattica di guerra o di spionaggio, ecc.: poco o nulla c'entra con le utopie o le filosofie socio-politiche e simili.

Mi sembra strano, in ogni caso, che ogni tot mesi/anni saltano fuori quei fantomatici insurrezionalisti: a dire il vero, non sembrano molto "genuine", notizie del genere; magari potrebbe esserci sotto una specie di neo-strategia della tensione, oggi ovviamente di tipo molto più mediatico.

Poi, boh, chissà: non si può sapere - perfino l'intellettuale Feltrinelli cascò in una trappola del genere (ovvero azioni di sabotaggio, dove tra l'altro perse la vita)...
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Re: Ultime notizie

Postby S-Bahn » Sun 05 July 2009; 22:37

Era questo che volevo quotare di Skeggia:
skeggia65 wrote: E' il problema di certi individui animati da un ideale: si credono superiori agli altri, in grado solo loro di sapere qual'è il meglio per il mondo, e per questo sono disposti a far qualsiasi cosa, anche uccidere...
La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che quella cosa ha un senso,
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Re: Ultime notizie

Postby skeggia65 » Sun 05 July 2009; 22:56

EuroCity wrote:Mi sembra strano, in ogni caso, che ogni tot mesi/anni saltano fuori quei fantomatici insurrezionalisti: a dire il vero, non sembrano molto "genuine", notizie del genere; magari potrebbe esserci sotto una specie di neo-strategia della tensione, oggi ovviamente di tipo molto più mediatico.


Si, ci sono i soliti servizi deviati, ovviamente manovrati dalla CIA, e menate varie. Ovviamwnte, boh, chissà, forse, in senso lato....Ma fammi il piacere!
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Re: Ultime notizie

Postby EuroCity » Mon 06 July 2009; 9:14

^^ Beh, cose del genere sono esistite davvero e probabilmente esistono ancora.

Comunque, mi riferivo più semplicemente ad una casta giornalistica che dice solo quel che le fa comodo e che quindi può essere usata dai "poteri forti" (o di altro tipo) come mezzo per manipolare la realtà.

In generale, ovviamente - pardon, in senso lato...

P.S.: Se gli insurrezionalisti esistono sul serio, invece, è purtroppo ovvio che usando gli stessi mezzi del potere, cioè la violenza, non si ottiene nulla di buono.
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Re: Ultime notizie

Postby S-Bahn » Tue 07 July 2009; 11:44

Io c'ero... :wink:
Parte prima...

L'EUROPEO DEL 1969
L’uomo è sulla Luna
Non più prigioniero del proprio pianeta, dalle 4.57 del 21 luglio 1969, l’uomo si è proiettato verso approdi ignoti
di Oriana Fallaci

Alle 4.57 del 21 luglio 1969 l’uomo ha messo piede sulla Luna. È cominciata così una nuova era nella storia umana: la conquista degli altri mondi, la scalata ai corpi celesti, l’assalto allo spazio. Non più prigioniero del proprio pianeta, l’uomo si è proiettato verso approdi ignoti. Finita la preistoria spaziale, si entrava nell’era cosmica.
Di questa grandiosa avventura che ha portato l’uomo a violare il pianeta proibito, L’Europeo forniva una cronaca destinata a diventare storia. Saranno queste parole, udite nel corso della lunga “notte della Luna”, a raccontare nei secoli l’avventura più grande dell’uomo del nostro tempo. È una cronaca vissuta minuto per minuto sul luogo stesso dal quale veniva comandata la missione lunare, al fianco degli uomini che a 400mila chilometri di distanza governavano l’astronave da Terra; e racconta, attraverso le parole testuali dei protagonisti, ciò che è avvenuto in quelle ore che hanno cambiato il destino dell’umanità.

Ora che lo spettacolo paradossale è finito, il dramma concluso, e i confini della nostra intelligenza e della nostra storia si sono allargati fino al Mare della Tranquillità, ci sentiamo come assuefatti all’idea di possedere la Luna e quasi sorridiamo delle nostre ansie e dei nostri timori: non era poi così difficile, dicono alcuni, si accende un fiammifero e via. Ci si abitua a tutto, anche al miracolo d’essere usciti dalla nostra prigione di azzurro per approdare a quell’isola brutta: presto ce ne scorderemo, come abbiamo scordato il miracolo del primo pesce che uscì dalle acque per approdare alla terra e diventare un uomo. Ripetere la sfida non ci sembra più un rischio blasfemo, e della meravigliosa avventura non resterà presto che una carnevalata intorno a due piloti cui abbiamo già regalato la patente di eroi, l’immagine sui francobolli, il nome nei libri di scuola, un posto nella storia. Forse il successo ci ha fatto perdere il senso delle proporzioni, forse ciò che è avvenuto è troppo grande per esser giudicato da noi: così come quel pesce non si rese conto di uscire dall’acqua per diventare uomo, noi non ci rendiamo conto di avere toccato un altro pianeta per diventare qualcosa che non sappiamo nemmeno immaginare. Il giudizio spetterà ai figli dei figli dei nostri figli. A noi contemporanei, a noi spettatori, resta solo da narrare ciò che abbiamo visto e udito ora con orgoglio ora con vergogna. Giacché siamo composti dell’uno e dell’altra, e anche nel viaggio verso la Luna gli uomini hanno dimostrato la loro bellezza e la loro bruttezza, che è come dire la loro umanità. Ecco dunque la cronaca di quei due incredibili giorni e di quell’incredibile notte come li ho visti a Houston, Texas, dal momento in cui la prima astronave terrestre si posò sulla Luna, il 20 luglio 1969, fino al momento in cui ne ripartì, il 21 luglio 1969.

The Eagle has landed, l’Aquila è atterrata
C’era stata quest’ultima notte durante la quale neanche Neil Armstrong e Buzz Aldrin e Michael Collins erano riusciti a dormire bene e avevano sonnecchiato per poco più di quattr’ore: secondo i dati forniti dai cervelli elettronici che da bordo raccontano tutto al Centro controllo. La notte fra il sabato 19 luglio e domenica 20 luglio. I tre astronauti si erano svegliati alle cinque del mattino, ora di Houston, dopo avere orbitato l’altra faccia della Luna, ed era subito cominciato un dialogo tecnico, parametri e traiettorie e costanti, condotto dal Capsule Communicator che per il momento era l’astronauta Ron Evans, e dopo quel dialogo era seguita la lettura delle notizie terrestri, accolta con un distacco quasi sgarbato. «Buzz, tuo figlio Andy ha fatto il giro della Nasa ieri pomeriggio e suo zio Bob l’ha accompagnato a visitare anche il laborato…».

«Grazie», lo aveva interrotto seccamente Aldrin. Nessuna notizia sembrava interessarli, divertirli, commuoverli, nemmeno quella che in tutte le chiese del mondo si pregasse per loro o che Richard Nixon avesse ordinato una funzione speciale alla Casa Bianca, o che la loro squadra preferita di baseball, la National League, si apprestasse a giocare a Washington con l’American League, o che il titolo di miss Universo fosse stato vinto da una filippina di 18 anni battendo miss Finlandia e miss Australia. S’erano decongelati un pochino solo quando Ron Evans aveva raccontato la leggenda di Chan Go: «Attenti, la ragazza è cinese e si chiama Chan Go. Vive sulla Luna da 4mila anni, rubò a suo marito la pillola dell’immortalità. È facile trovarla perché se ne sta con un grande coniglio all’ombra di un albero di cannella». Con la sua voce di pietra, Aldrin aveva risposto: «Okay, Ron. Cercheremo di trovare la ragazza con il coniglio».

Era arrivata questa domenica, ma non una domenica come le altre, cioè spensierata, rilassata, festosa. Alle 8, anziché i soliti programmi a quiz, la televisione aveva cominciato a trasmettere servizi speciali che davano l’immagine della nostra galassia, della Via Lattea, del nostro sistema solare, mentre una voce leggeva la Genesi: “E in principio Dio creò il Cielo e la Terra, e la Terra era vuota e senza forme, e l’oscurità era sospesa sul cielo e la terra…”. Del resto molti, quella mattina, citavano la Genesi: preti cattolici e pastori presbiteriani, metodisti, episcopali. A Houston le chiese erano piene, impiegati della Nasa scienziati astronauti: v’è un momento in cui la tecnologia non basta più a dare agli uomini fiducia in se stessi e la loro sapienza si scioglie in debolezza. Li vedevi entrare e uscire dalle chiese, quegli uomini, tutti compunti, tutti tesi nell’ansia. L’angoscia era aggravata da un cielo livido che annunciava la pioggia e verso mezzogiorno c’era stato uno scroscio rabbioso, scalognatore. Nessuno si sentiva ottimista, tranquillo. Nell’edificio dove la Nasa ospitava la sala stampa i giornalisti passeggiavano impazienti. Uno ripeteva: «Non la so scrivere questa cosa, non la so scrivere. Non è una storia da giornalisti, ci vorrebbe Omero». In città, le sole persone che dimostrassero serenità erano le mogli di Armstrong, Aldrin e Collins. Addestrate dai loro mariti, «la Luna è una normale conquista della tecnologia», erano giunte a quel giorno con la principale preoccupazione di apparire graziose in tv e una, la moglie di Aldrin, aveva fatto a tale scopo una cura dimagrante. Grazie a essa aveva potuto esibirsi in costume da bagno sui bordi della sua piscina, offrendosi alla folla e alle macchine da presa della Cbs dinanzi alle quali aveva scherzato, sorriso, spiegato che i tre sarebbero allunali e tornati. Cosa di cui neanche Wernher Von Braun sembrava sicuro. Nell’ultima conferenza stampa gli era sfuggita una frase: «Siamo abbastanza maturi da sopportare lo shock se la missione non sarà completata». Alla caffetteria della Nasa, dove era sceso per mangiare un panino mischiato alla folla, Von Braun era apparso cupo e aveva rifiutato di firmare una fotografia del Saturno.

E così siamo giunti al pomeriggio fatale, quello in cui due uomini del nostro pianeta avrebbero tentato di sbarcare sulla Luna. Erano due uomini che nessuno aveva scelto perché migliori degli altri e il loro unico merito consisteva nell’essere bravi piloti, ma non migliori di altri. Umanamente non valevano granché. Privi di fantasia e di umiltà, prima della partenza si erano mostrati arroganti, durante il volo non si erano resi simpatici: mai una frase dettata dal cuore, un motto scherzoso, un’osservazione geniale. Avevano visto la Terra che si allontanava centinaia di migliaia di miglia e tal privilegio s’era risolto in un’arida lezione di geografia: «Vedo a destra la penisola dello Yucatán, a sinistra la Florida…». Qualcuno li aveva definiti “unmanned crew”, equipaggio senz’uomo, il termine che si usa per le astronavi che non hanno persone a bordo. Amareggiato e deluso dal loro silenzio, li perdonavi solo sapendo che avevano paura, ma neanche ciò bastava ad amarli mentre l’ora si avvicinava. L’ora era fra le 3 e le 3 e mezzo. Quelle due macchine straordinarie chiamate Lem e capsula Apollo si erano ormai staccate: l’Apollo orbitava la Luna con Mike Collins, il Lem si abbassava sul Mare della Tranquillità con Armstrong e Aldrin. Ma non si chiamavano più Apollo e Lem: il primo lo avevano ribattezzato Columbia, dal nome del razzo di Jules Verne, il secondo Eagle, cioè aquila: simbolo amato dai militari. Nel distintivo fatto disegnare dai tre si vedeva un’aquila che scende con le ali spiegate e gli artigli spalancati fra i crateri della Luna. Osservandolo, alcuni avevano ricordato che l’impegno di sbarcare sulla Luna entro il 1970 era stato assunto da John Fitzgerald Kennedy dopo la crisi di Cuba, anzi dopo la Baia dei Porci, per scopi strettamente politici. C’era bisogno di una grossa impresa che restituisse prestigio e rispetto agli Stati Uniti e la Luna era apparsa la soluzione più facile e più clamorosa. Lo stesso Lyndon Johnson aveva confermato ciò in una trasmissione televisiva.

Poi, d’un tratto, scoppiarono le 3 del pomeriggio. D’un tratto, come questo viaggio che avevamo atteso per anni e a cui, tuttavia, non eravamo ancora preparati. Sai, come quando nasce un bambino e per nove mesi lo si vede crescere nel ventre, si sa che dal ventre dovrà uscire, ma arriva il momento e ti coglie una specie di sorpresa, di panico, nasce il bambino, è appena nato il bambino e ci accorgiamo che non siamo pronti a riceverlo. Non successe nulla di straordinario che ci desse l’allarme, non suonò un campanello, non gracchiò un altoparlante per dirci che erano le tre, forse non guardammo nemmeno l’orologio. Ma all’improvviso ci accorgemmo che l’ora era giunta e tutto cambia. Non ci importò più che la Luna rappresentasse un volgare scopo politico, non ci importò più che i due uomini scelti dal caso fossero antipatici. La Luna divenne qualcosa di religioso e i due uomini divennero qualcosa di santo: un simbolo di tutti noi, vivi o morti, buoni e cattivi, stupidi e intelligenti, noi pesci che cerchiamo sempre altre spiagge senza sapere perché. E ovunque passò come un brivido, lo stesso che in quel momento scuoteva chiunque ascoltasse una radio, nel mondo, o sedesse dinanzi a un televisore, o sapesse quel che stava accadendo. Le macchine da presa della tv erano puntate sul Centro controllo dove si dirigono le operazioni di volo. Il Centro controllo si affollò e dietro un vetro apparve Von Braun, con il capo chino e le braccia conserte come se pregasse. Ai tavoli coi monitor e i cervelli elettronici gli ingegneri e gli astronauti e i tecnici si accomodarono meglio le cuffie. Ron Evans si alzò e lasciò il posto a Charlie Duke (astronauta che fungeva da “capcom”, capsule communicator, cioè colui che aveva il compito di comunicare direttamente con l’equipaggio. Fu pilota del modulo lunare di Apollo 16 e decimo uomo a mettere piede sulla Luna nel 1972, ndr). Accanto a lui c’era soltanto Pete Conrad, il comandante del prossimo equipaggio destinato alla Luna in novembre. Immobili, tutti e due, tirati. Nella sala stampa invece si raddoppiò il trambusto, spostare di sedie, squillare di telefoni, battere di telescriventi, urla isteriche. Chi chiamava Tokyo, chi Berlino, chi Roma, chi Praga, chi Rio de Janeiro! «Press emergency, press emergency call! Chiamata stampa di emergenza! Emergenza!», oppure: «Il cavo! Il cavo!», altri defluirono verso l’auditorium.

C’era questo auditorium, che è immenso, e c’era questo schermo che è enorme: quattro metri per sei. Si fece buio, si accese lo schermo, e non vi apparve nulla per chi non sapesse, ma vi apparve qualcosa di tremendo per chi sapesse: i numeri della conta a rovescio. Le ore, i minuti, i secondi. Le ore erano ormai a zero, i minuti erano dieci, i secondi spaccavano senza darli il tempo di leggerli: macchie luminose tremanti come le nostre mani, i nostri ginocchi. E l’audio martellò, nel silenzio, poi diffuse una voce che era la voce di Charlie Duke, un’altra voce che era la voce di Armstrong. Giungeva disturbata da sibili, fischi, 400mila chilometri laggiù nel cosmo, ma si capiva tutto ciò che diceva, e quel dialogo, Dio quel dialogo, noi che lo udimmo non lo scorderemo mai. Ci saremmo molto turbati, più tardi, a vederlo uscire dal Lem e camminare sulla Luna. Però mai quanto nei dieci minuti o dieci secondi che precedettero l’allunaggio. Se chiedi a chi c’era: «Tu hai pianto di più al momento in cui Armstrong ha allungato il piede o al momento in cui il Lem si è posato?», la risposta è identica: «Al momento in cui il Lem si è posato». Le tre e 17 minuti e dieci secondi del 20 luglio 1969, ora di Houston. Vogliamo riascoltare gli ultimi 14 secondi prima che quel bambino nascesse?
Charlie Duke: «Aquila, qui Houston. Tutto pronto per l’atterraggio. Chiudo».
Neil Armstrong: «Roger. Capito. Pronto per l’atterraggio».
Charlie Duke: «Roger».
Armstrong: «Allarme 12. 12.01».
Charlie Duke: «12.01».
Armstrong: «Siamo pronti. Stai lì, pronti. 2mila piedi. 2mila piedi nell’Ags. 47°».
Charlie Duke: «Roger. Calato».
Armstrong: «47°».
Charlie Duke: «Aquila, siete perfetti. Siete sul go. Go!»
Armstrong: «35°… 750, si scende giù a 23; 700 piedi, 21 e giù. 36°, 600 piedi, giù a 19; 510 piedi, giù a 30… giù a 30… giù a 15; 400 piedi, giù a 9… 8, avanti. 350, giù a 4; 330, giù a 3 e mezzo. L’ago è tutto teso sulla velocità orizzontale… 300 piedi, giù a 3 e mezzo… giù 1 al minuto. 1, 1 e mezzo giù… vedo la nostra ombra laggiù… 50, giù a 2, 2 e mezzo. 19, avanti. Altitudine velocità 3 e mezzo, giù, 220 piedi. 13, avanti… 11, avanti… scende proprio bene, bene. 200 piedi, 4 e mezzo e giù. 5 e mezzo e giù. 170. 6 e mezzo e giù. 5 e mezzo e giù. 9. avanti. 5 per cento, quantità luce 705 piedi, tutto va bene. Giù a metà, 6…».
Charlie Duke: «60 secondi, Neil»
Armstrong: «Accese luci. Giù a 2, 2 e mezzo. Avanti avanti! Bene! 40 piedi, giù a due e mezzo… stiamo sollevando polvere… 30 piedi… 2 e mezzo giù… c’è un’ombra debole debole. 4 avanti… 4 avanti, stiamo piegandoci un poco a destra… 6 giù».
Charlie Duke: «30 secondi, Neil».
Armstrong: «Avanti… ci stiamo spostando a destra… contatto luce. Okay. Chiudo i motori. Chiudo il controllo automatico. Chiudo il motore di discesa. Motori chiusi. Siamo sul 413».
Charlie Duke: «Ti leggiamo, Neil».
Armstrong: «Houston, qui base della Tranquillità. L’Aquila ha atterrato».
Charlie Duke: «Roger. Tranquillità, ti leggiamo da Terra. C’è un bel mucchio di tipi qui che stanno per diventare blu. Ma respiriamo di nuovo. Grazie infinite».
Nell’auditorium, e anche nel Centro controllo, le parole di Charlie Duke non le udì nessuno. Perché dopo il messaggio di Armstrong, «qui base della Tranquillità, l’Aquila ha atterrato», la tensione si ruppe e salì al cielo un applauso che era l’applauso più fragoroso e più lungo che avessi mai udito, e insieme all’applauso un concerto di singhiozzi, di urli, di esclamazioni dove il sollievo si univa alla gioia, la gioia allo stupore, lo stupore all’orgoglio, e ciò non soltanto nell’auditorium, ma nei corridoi, nelle cabine radio, nelle stanze delle telescriventi, negli uffici, nello stesso Centro controllo dove mi dicono che Von Braun piangesse come un bambino. E piangeva Wally Schirra, e molti degli astronauti, e i direttori di volo. Il volto di Pete Conrad aveva il colore del gesso, quello di Alan Bean che scenderà con lui era terreo. Si alzò Charlie Duke, lasciò il posto a Ron Evans, spalancò la porta del Centro controllo, entrò nel recinto dei Vip e aggrappandosi a tutti balbettava: «We did it, we dit it! Ce l’abbiamo fatta, ce l’abbiamo fatta!». Poi Duke uscì dal recinto dei Vip, si mise a correre per le stanze, per gli edifici, ripeteva «we did it, we did it, o God God God! Dio Dio Dio!». Questi uomini forti, sempre freddi e sempre distaccati, questi uomini sempre convinti che una ruota debba girare per il semplice fatto che è una ruota. Ci volle un bel po’ perché si ricomponessero, ci ricomponessimo, e ripensassimo alla voce con cui Armstrong aveva detto «l’Aquila è atterrata». Una voce soffice, tranquilla, priva di qualsiasi emozione.

Più tardi il medico di volo informò che al momento dell’atterraggio il polso di Armstrong era salito a 156. Lui che non va mai oltre i 70, i 90. Ma dalla voce non sembrava davvero, e con quel tono soffice, tranquillo, privo di qualsiasi emozione, continuò a dare le informazioni, spiegò il punto in cui era atterrato, un triangolo compreso fra una collina chiamata Zampa di gatto, una montagna chiamata Ultima freccia e un cratere detto Zeta. Finalmente lasciò che Aldrin descrivesse ciò che vedeva dal finestrino del Lai. Era tornato Charlie Duke; il dialogo è con Charlie Duke.
Aldrin: «Houston, deve esservi apparsa una fase finale molto lunga. Lo è stata. Il sistema automatico ci stava portando dritti in un campo di football, voglio dire un cratere che aveva l’ampiezza di un campo di football, con un gran numero di massi enormi, circa il diametro di uno dei crateri minori, sicché abbiamo dovuto controllare la discesa a mano e cercare una zona ragionevolmente buona in quel campo di rocce».
Charlie Duke: «Roger. Ricevuto. Era bello da qui, Tranquillità. Chiudo».
Aldrin: «Ora entriamo nei dettagli di ciò che vedo intorno a me. Be’, sembra una collezione di ogni specie di rocce per ciò che riguarda la forma, l’angolosità, la granulosità. Sono estremamente varie. I colori cambiano parecchio a seconda di come li guardi nella luce. In genere non sembra esserci molto colore, direi niente affatto colore. Però sembra che alcune delle rocce e dei massi, e anche di questi ve ne sono parecchi vicini a noi, sembra che alcuni abbiano colori interessanti. Chiudo».
Charlie Duke: «Roger, ricevuto. Ci sembra che tutto vada bene, Tranquillità. Ora vi lasciamo lavorare sulla conta a rovescio simulata e poi ci riparliamo. Chiudo».
Aldrin: «Okay. Questo 16G è proprio come un aeroplano».
Charlie Duke: «Roger, roger. Tranquillità, dovete sapere che in questa stanza c’è un mucchio di facce sorridenti, e anche in tutto il mondo».
Aldrin: «Due sono anche qui dentro».
Charlie Duke: «È stato un gran bel lavoro, ragazzi».
Fu a questo punto che intervenne la voce fra divertita e mortificata di Collins: «Non dimenticatevi di qualcuno che è dentro questa capsula». Quel Collins sempre messo da parte e destinato a essere messo da parte, quel Collins che se ne andava solo intorno alla Luna. Nessuno gli rispose. Il dialogo fra il Centro controllo e il Lem continuò.
Charlie Duke: «Tranquillità, qui Houston. Avete atterrato con un’inclinazione di 4 gradi e mezzo. Chiudo».
Aldrin: «Sì, è confermato dai nostri strumenti. Chiudo».
«Houston, qui Columbia, Houston! Non potreste mettermi in contatto con loro?», disse Collins, commovente come la sua solitudine.
«Okay, Columbia. Ora ti ci mettiamo», disse Charlie Duke. «Di’ qualcosa che possano udire, Mike. Chiudo».
«Qui Columbia. Cosa devo dire?».
«Qualcosa che possano udire, qualcosa. Chiudo».
«Roger. Base della Tranquillità, qui Columbia. Ragazzi, visto di quassù è stato proprio straordinario. Avete fatto un lavoro straordinario, ragazzi».
«Grazie, Mike», rispose Aldrin. «Ora tieni stretta quella base in orbita, tienila pronta per noi».
«Lo farò, Buzz, lo farò». Poi intervenne di nuovo Armstrong.
«Houston, qui base della Tranquillità. I ragazzi a Terra avevano detto di non essere certi che ce l’avremmo fatta e invece… eravamo un po’ preoccupati dal sistema di allarme, questo sì. Proprio durante la discesa, e a parte il momento in cui dovevamo scegliere un buon posto per atterrare, voglio dire a parte una buona occhiata ai crateri nella fase finale, non m’è riuscito di identificare bene quel che c’era all’orizzonte».
Charlie Duke: «Non te la prendere, Neil. A quello ci pensiamo ora. Chiudo».
«Può interessarti sapere che non ho notato e non noto difficoltà alcuna nell’adattarmi a un sesto di gravità. Direi anzi che mi riesce naturale, spontaneo, muovermi in un sesto di gravità».
«Roger, ricevuto. Bene. Chiudo».
«Houston, ora ti do le informazioni. La mia sinistra è praticamente poco sopra il livello di un grande numero di crateri il cui diametro va dai cinque ai 50 piedi. Vedo anche molte vette montagnose alte dai 20 ai 30 piedi. E migliaia, letteralmente migliaia di minuscoli crateri larghi un piede o due. Di fronte a me, a qualche centinaio di piedi, vi sono alcuni blocchi di roccia irta e angolosa, dai bordi appuntiti, alti circa due piedi. E c’è una collina sul nostro orizzonte, proprio in linea diretta con i due finestrini. Giudicarne la distanza è impossibile, ma direi un miglio o mezzo miglio».
Mike Collins: «Sembra molto meglio di ieri, Neil, quando si guardava in quell’angolatura bassa del Sole. Ieri il terreno appariva accidentato come una pannocchia di granoturco».
«Era davvero accidentato, Mike. Nella zona di atterraggio era estremamente punteggiato di crateri e di pietre. Alcune pietre… più grandi di cinque o 10 piedi».
«Nel dubbio, atterra lungo». (È una espressione dei piloti: «When in doubt, land long». Gran parte delle loro frasi erano nel linguaggio dei piloti: per esempio non dicevano «non preoccuparti», dicevano «niente sudore, no sweat». E non dicevano «chiudo», dicevano «break, break, rompi, rompi»).
«È quel che abbiamo fatto, Mike».
Charlie Duke: «Tranquillità, qui Houston. Vorremmo che tu mettessi in funzione il memory E. Chiudo. Columbia, qui Houston. Per te abbiamo un P22, se sei pronto a ricevere».
Mike Collins: «Sissignore, ai tuoi ordini».
Armstrong: «Dunque, dicevo, direi che il colore della superficie intorno a noi è paragonabile a quello che abbiamo osservato in orbita: a 10° di angolatura del Sole. È un colore sostanzialmente senza colore, grigio bianco, molto bianco, e il grigio è gessoso quando guardi alla fase zero. Però quando guardi a un’ inclinazione di 90° è un grigio molto più scuro, è un grigio cinereo, color della cenere. Alcune delle rocce che sono state investite o rotte dal razzo sono all’esterno di un color grigio chiaro e all’interno di un grigio scuro, scurissimo, quelle rotte, mi spiego. Sembrano basalto».
Interruzione di Charlie Duke: «Tranquillità, qui Houston. Per favore depressurizzate di nuovo il carburante e l’ossigeno. Stanno salendo troppo».
Armstrong: «Okay carburante e ossigeno in partenza».
Charlie Duke: «Tranquillità, ho detto che potete aprire sia il carburante che l’ossigeno. Chiudo».
Armstrong: «Okay, okay».
Charlie Duke: «Tranquillità, ripeto: depressurizzate il carburante. Depressurizzate, depressurizzate! Sta aumentando rapidamente di pressione. Chiudo».
Armstrong: «Ma noi segniamo 30 Psi del carburante e 30 di ossigeno». (Psi significa Pound square inch, cioè libbre ogni pollice quadrato).
Charlie Duke: «Noi leggiamo qualcosa di diverso sui nostri strumenti. Per favore, depressurizzate il carburante e l’ossigeno ho detto».
Armstrong: «Okay depressurizziamo. Teniamo aperto. Ora l’ago segna 21 Psi. E ora 20. E ora 15. E ora 0».
Charlie Duke: «Bene, chiudi, grazie».
Armstrong: «Chiuso. Dai finestrini non abbiamo potuto vedere le stelle, avevamo la visiera dell’elmetto calata. Ora Buzz tenta di vederle con le lenti ottiche, io sto guardando la Terra. È grande e lucente e bella».
Charlie Duke: «Tranquillità dev’essere proprio un gran bello spettacolo. Chiudo. Columbia, qui Houston. Mancano due minuti al vostro Los. (Loss of signal, cioè perdita di contatto con la Terra, quando l’astronave passa dall’altra parte della Luna. Mike Collins stava infatti dirigendosi verso l’altra faccia della Luna). «Mike, sei proprio bello mentre te ne vai sopra la collina. Chiudo».
Collins: «Okay grazie. Sono contento di sapere che anch’io funziono bene. Avete nulla da suggerire? La posizione che tengo mi sembra giusta».
Charlie Duke: «Perfetta. Mike».
Collins: «Sarebbe anche ora di mangiare, no?».
Charlie Duke: «Ripeti».
Collins: «Be’, non importa».
Charlie Duke: «Mike, tieni quella posizione. È buona».
Collins: «Grazie».
E sparì dall’altra parte della Luna, a volare solo in quel nulla fatto di silenzio. Per un’ora non avrebbe potuto comunicare con nessuno, sapere ciò che accadeva ad Armstrong e a Aldrin, dire quel che accadeva a lui, per esempio, se avesse potuto dire l’invidia, la malinconia che provava a pensare di non poter scendere sopra la Luna, lui: essere arrivato fin quasi a toccarla e non toccarla, girarci intorno come Caino e perdersi tutta la gloria, rendendosi conto che quando parlavano a lui era quasi per gentilezza, di lui non si curavano affatto o ben poco, tutta l’attenzione era per Armstrong e Aldrin, e a lui era toccato proprio il lavoro peggiore: povero Mike. Poi, erano ormai le 4 e mezzo del pomeriggio, il medico di volo annunciò che Armstrong e Aldrin si sarebbero messi a mangiare, subito dopo a dormire. Uscimmo, dall’auditorium. La pioggia era cessata, colava a picco un sole bollente, accecante; e la Nasa brulicava di folla. In segno di festa avevano improvvisamente aperto i cancelli, e sotto una copia del Lem, in mezzo al prato dell’edificio numero uno, erano accampati una dozzina di neri, giunti apposta da Washington per dimostrare contro il viaggio sulla Luna e sfruttare la presenza dei giornalisti. Si riparavano dal sole con ombrelli neri e battendo le nocche sull’asta dell’ombrello cantavano: «Hanno la Luna in mano, hanno Neil Armstrong in mano, hanno Buzz Aldrin in mano, hanno il Vietnam in mano, hanno i bambini che muoiono di fame in mano, hanno la potenza in mano, hanno l’ingiustizia in mano». La maggior parte erano donne ben vestite o grasse, e c’era anche una ragazza bianca con i capelli biondi e i blue-jeans. Arrivò la polizia; dolcemente, per non dare scandali, li invitò ad andarsene. Alle cinque e mezzo si seppe che Armstrong e Aldrin non sarebbero andati a dormire dopo mangiato: per la prima volta avevano infranto il programma e dimostrato qualcosa di umano, l’impazienza. E con impazienza avevano chiesto il permesso di prepararsi a uscire subito sulla Luna e il permesso gli era stato accordato. L’avvenimento era atteso per le otto e mezzo di sera e quel giornalista ripeteva: «Io non ci riesco, io non ci riesco. Ci vuole Omero».

I am at the foot of the ladder, sono ai piedi della scaletta
A Houston, quella sera, non si vedeva la Luna. Era coperta da nubi fitte, nuovamente gonfie di pioggia. E in quel cielo senza Luna, nuovamente gonfio di pioggia, arrivarono le otto e mezzo che divennero presto le nove: alle otto e mezzo Armstrong e Aldrin non erano ancora pronti a uscire. Le nove divennero presto le nove e mezzo: neanche alle nove erano ancora pronti a uscire. Alle nove e mezzo il Centro controllo annunciò che erano pronti e mancava circa un quarto d’ora all’apertura dello sportello. Allora nell’auditorium ci mettemmo a fissare l’enorme schermo dove si avvicendavano, allineate, le informazioni dei cervelli elettronici. L’informazione che ci interessava era al penultimo rigo, dove stava scritto Plss. Significa: Post landing survival system, ed è in sostanza il contenitore di ossigeno che gli astronauti si attaccano dietro le spalle e poi mettono in funzione al momento in cui la cabina del Lem viene depressurizzata e lo sportello si apre. Accanto alla parola Plss leggevi, fino alle 9.45, 00: 00,00. Ma alle 9.45 l’ultimo zero divenne un uno e poi un due e poi un tre e i secondi divennero con velocità pazza minuti e sapemmo che la cabina era stata depressurizzata, lo sportello aperto.

In principio ci furono solo le voci. Infatti la macchina da presa della televisione era chiusa in un settore del Lem che poteva essere azionato solo dall’esterno e, per azionarlo, Armstrong doveva uscire, poi scendere fino a metà scaletta. Le voci giungevano a noi molto nitide e non eran le solite voci di pietra, erano voci molto preoccupate, molto incerte. Soprattutto quella di Armstrong che finalmente tremava come deve tremare la voce di un uomo che la prima volta mette piede sulla Luna. Tremavamo anche noi, però. Dio, come tremavamo.
Voce di Armstrong: «Bene…».
Voce di Aldrin: «Quasi pronti per andare giù a prendere…».
Voce di Armstrong: «È giù il mio indicatore? Okay, ora siamo pronti ad agganciare Lec» (Launch escape control, cioè la corda per calare le scatole di alluminio e gli strumenti).
Voce di Aldrin: «Ora che vai giù, Neil, metti il sacchetto così, È meglio. Neil, te lo sei legato?».
Voce di Armstrong: «Sì, ora bisogna agganciare questo».
Voce di Aldrin: «Questo lascialo qui».
Voce di Armstrong: «Sì».
Voce di Aldrin: «Okay, la visiera, Neil. Abbassala. Neil, stai voltando le spalle alla passerella della scaletta. Avanti. Su. Bene. L’hai trovata… un po’ più verso di me. Neil… ora dritto. Giù… riposati un poco».

Lo guidava nel modo in cui si guida un cieco che impara a camminare nel buio. Affettuosamente, prolissamente. Lo guidava nel modo in cui i pesci guidarono il pesce che uscì in cerca della riva asciutta, allargando le branchie per respirare l’ossigeno. E la riva era questa distesa di sabbia sconosciuta grigia e ostile.
Voce di Aldrin: «Neil, te la stai cavando proprio bene, Neil. Torna verso di me ancora un poco. Okay, giù. Muoviti… Tira giù a sinistra… okay. Ora va meglio. Sei sulla piattaforma. Metti il piede sinistro un po’ a destra. Così. Bene. Girati un poco a sinistra».
Voce di Armstrong: «Okay, ora controllo questi sacchetti».
Voce di Aldrin: «Non subito, aspetta. I sacchetti dopo. Girati un po’ a destra. Ecco, ora va meglio».
Voce di Armstrong: «Va bene così?».
Cercava l’approvazione dell’altro come un bambino e all’improvviso persino la sua voce sembrava quella di un bambino. Così mite, esitante, gentile. «Va bene così?».
Voce di Aldrin: «Benissimo, Neil. Hai molto posto alla tua sinistra».
Voce di Armstrong: «Come me la cavo, Buzz?».
Voce di Aldrin: «Bene, ti ho detto. Bene. Ora li vuoi quei sacchetti?».
Voce di Armstrong: «Sì. Dammeli. Okay, Houston. Sono sulla passerella. I am on the porch ».
Voce di Aldrin: «Resta un minuto dove sei, Neil».
Voce di Armstrong: «Okay».
Voce di Aldrin: «Ho bisogno di allentare un poco la corda, Neil».
Voce di Armstrong: «Hai bisogno di allentarla, Buzz?».
Voce di Aldrin: «Aspetta un minuto».
Voce di Armstrong: «Okay».
Voce di Aldrin: «Okay, tutto è bello e pieno di sole qui».
Voce di Armstrong: «Vuoi tirare un poco più su lo sportello aperto?».
Voce di Aldrin: «Ora lo tiro».
Voce di Armstrong: «Houston, la Mesa è venuta giù bene». (La Mesa è il Modularized equipment stowage assembly, cioè il pacco che contiene le batterie per l’erogazione dell’ossigeno e per la camera da presa della tv, gli utensili per raccattare le rocce, e i sacchetti per i campioni lunari eccetera).
Bruce McCandless, dal Centro controllo: «Qui Houston. Neil, prendiamo nota e aspettiamo la televisione».
Voce di Armstrong: «Houston, qui Neil. Prova il contatto radio».
Bruce McCandless: «Neil, qui Houston. La radio funziona, ti udiamo bene e chiaro. Chiudo. Buzz, qui Houston. Prova anche tu la radio e verifica il circuito tivù».
Voce di Aldrin: «Roger. Circuito tivù aperto».
Armstrong dovette aprirlo, allungando la mano sinistra, proprio mentre parlava con Houston perché in quel preciso momento gli schermi si illuminarono e vedemmo ciò che vedeste voi, ciò che vide tutto il mondo, vedemmo la zampa del Lem, e la parte inferiore del Lem, e l’orizzonte della Luna. E poi vedemmo quel piede, quel grande piede che scendeva a cercare il piolo della scaletta, era un piede sinistro e scendeva così lento, così cauto, ma allo stesso tempo così deciso. E dal Centro controllo Bruce McCandless gridò: «Man! Riceviamo un’immagine sulla tivù! Oh, man!». E Aldrin, tutto contento, rispose: «Bella immagine, eh?», e Bruce McCandless aggiunse: «Neil, Neil! Ti vediamo scendere per la scala a pioli!». Erano le 9.56, ora di Houston. E nell’auditorium tutti ripetevano con Bruce McCandless: «Man! Oh, man!». Che vuol dire uomo. Uomo, non Dio. E mentre invocavano l’uomo invece di Dio, Armstrong risalì di due o tre scalini, a provare se ciò gli costava fatica, ma non gli costava nessuna fatica e riprese a scendere cauto, deciso. E presto lo vedemmo tutto intero, prima la tuta bianca e poi il casco: fu all’ultimo piolo dove ebbe un momento di esitazione perché l’ultimo piolo è assai alto, per scendere sopra il piattello della zampa del Lem bisogna fare quasi un saltino, e sembrò quasi che gli mancasse il coraggio di fare il saltino, il coraggio di uscire dall’acqua, lasciare l’ultima onda e gettarsi sopra la riva. Ma poi il coraggio gli venne, e si buttò giù e fu dentro il piattello. E le sue prime parole sulla Luna furono queste: «Sono ai piedi della scaletta, I am at the foot of the ladder… i piedi del Lem sono affondati nella superficie per circa uno, due pollici… la superficie tuttavia appare molto, molto granulosa quando ti avvicini. È come polvere. Fine, molto fine. Ora esco dal piattello del Lem».

È questo che disse. La frase su cui fecero i titoli la disse dopo. La frase che tutti avevano tentato di indovinare, cosa dirà Neil al momento di fare il primo passo sopra la Luna, dirà fantastico, dirà perbacco ragazzi, e lo avevano tormentato tanto, povero Armstrong, lo avevano esasperato al punto che per non deludere l’attesa lui ci aveva pensato, alla frase, e l’aveva trovata, e l’aveva confidata a una sola persona: sua madre. L’ha raccontato lei stessa: «Venne a domandarmi cosa ne pensavo, sembrava così preoccupato, e io gli dissi che mi sembrava un bel discorso. Allora mi fece giurare che non l’avrei detto a nessuno». Non era un gran bel discorso, ammettiamolo. Era una frase retorica, e suonava un pochino falsa, un pochino buffa, dentro il suo gergo tecnico da pilota. Oh, quasi ne fosse cosciente, Armstrong la pronunciò molto in fretta, in un sussurro carico di imbarazzo: «That’s one small step for man, one giant leap for mankind. Questo è un piccolo passo per l’uomo, è un salto gigantesco per l’umanità». Però si riprese immediatamente, tornò immediatamente se stesso, e ciò accadde quando staccò le mani dal Lem e andò avanti, e incominciò a spiegare quel che vedeva: «La superficie è fine e polverosa, posso sollevarla con la punta delle mie scarpe: aderisce alla suola e ai lati delle mie scarpe in strati simili a polvere di carbone. Affondo solo in una piccola frazione di pollice, forse l’ottava parte di un pollice. Ma posso vedere le impronte delle mie scarpe e i miei passi sopra la sabbia ».
E poi accadde qualcosa di molto imprevisto, di molto fantastico: si mise a correre, proprio a correre. Si allontanava come spinto dal vento e come spinto dal vento tornava: improvviso, leggero. E Bruce McCandless esclamò: «Neil! Neil!».

Non se l’aspettava nessuno. Sulla Terra è così difficile muoversi con quella tuta addosso: pesa 80 chili ed è più rigida di uno scafandro. Naturalmente alla Nasa avevano calcolato che sulla Luna essa avrebbe pesato neanche 13 chili e mezzo, cioè un sesto, però anche il corpo avrebbe pesato un sesto, e così avevan concluso, il rapporto sarebbe rimasto identico. E in tal conclusione ci avevan descritto i movimenti di Armstrong sulla Luna come visti al rallentatore: ecco invece che Armstrong correva. Balzi e lanci che avevano qualcosa di assurdo, ricordavano Charlot nelle sue farse mute, per qualche secondo su al Centro controllo temettero quasi che fosse impazzito e quando capirono d’essersi sbagliati, d’aver mal calcolalo l’effetto di un sesto di gravità, cominciarono a ridere divertiti, liberati, tanto più che la voci di Armstrong era davvero tranquilla mentre diceva: «Al contrario di ciò che ci aspettavamo sembra non esserci difficoltà alcuna a muoverci qui. Forse è perfino più semplice di quanto lo fosse nei simulatori, non dà proprio nessuna noia camminare in un sesto di gravità». E poi: «Il moto di discesa non ha lasciato nessun cratere. Di nessuna forma, di nessuna ampiezza. Il suolo sotto il motore è solo un poco più chiaro per lo spazio di un piede. Siamo in un posto molto piano, posso vedere alcune tracce di raggi che emanano dal motore di discesa, ma assolutamente insignificanti. Okay, Buzz, siamo pronti per portare giù la macchina fotografica».
«Pronti», rispose Aldrin. «Sembra che tutto risulti facile e uniforme, Neil».
«Abbastanza, Buzz. Ma è molto buio qui quando si è nell’ombra, e mi è difficile vedere se cammino bene. Mi farò strada verso la luce del Sole stando attento a non guardare direttamente nel Sole».
Aldrin gli calò la macchina fotografica, attraverso la corda. Lui la prese e continuò a descrivere con la precisione di un cronista radiofonico.
«Ora guardo il Lem stando direttamente nell’ombra e vedo Buzz nello sportello. Evitando il Sole vedo tutto molto bene. La luce è sufficientemente chiara, si riflette nel Lem, e ogni immagine è nitida… Ora mi muovo e prendo le prime fotografie. Okay, ora mi accingo a prendere un campione del suolo».
Volò verso il pacco degli utensili, ne estrasse il bussolottino per raccogliere il suolo destinato ai geologi. Allungò il manico e chinandosi un poco si accinse a tuffarlo nella superficie sabbiosa.
«Interessante! Molto interessante! È superficie così morbida eppure, qua e là, usando l’utensile per raccogliere il campione del suolo, trovo una superficie durissima. Sembra materiale identico a quello sabbioso, eppure è molto coesivo. Ora provo a raccattare anche un sasso. Ecco un paio di sassi».
«A giudicare di qui, sembrano belli anche i sassi. Neil», disse Aldrin.
«Questo posto ha una sua bellezza, Buzz. Assomiglia molto al deserto degli Stati Uniti. È deserto, sì, ma è molto bello. Houston, dovete sapere che molte rocce, qui, le rocce dure, sembrano vescicolari. (Piccole rocce rotonde, di origine vulcanica. Chiamate così perché presentano cavità provocate dall’esplosione interna dei gas). Di origine vulcanica, penso. E ce n’è una che sembra una specie di monocristallo».
Nel giro di 20 minuti aveva acquistato una straordinaria confidenza in se stesso, si era completamente assuefatto alla Luna. E noi con lui. Niente più tremiti ormai, niente più paura: a vederlo così tranquillo, quasi dimenticavi che lo spettacolo paradossale si svolgeva lassù, ti sembrava d’essere al cinematografo a guardare un film di fantascienza, e a poco a poco anche il film non ti stupiva più, anzi diventava credibile, normale, ovvio. Qualcuno, accanto a me, sbadigliò. Qualche altro disse che gli era venuta voglia di andare a bere un caffè: tanto, cosa si perdeva? Be’, scende Aldrin, gli venne risposto. E lui alzò le spalle, se ne andò a bere il caffè.
Aldrin, lo capivi dal fatto che non si muovesse dalla passerella, fremeva di impazienza. Dopo tutto avrebbe dovuto essere lui il primo uomo a camminare sulla Luna, mica Neil Armstrong. Secondo i piani della Nasa infatti il privilegio spettava al pilota del Lem, non al comandante della missione, ed era stato Armstrong a puntare i piedi, a pretendere di mutare le precedenze, sicché Aldrin aveva dovuto chinare il capo, accettare. Per alcuni mesi ciò aveva causato tra i due astronauti un’ostilità sorda e sebbene negli ultimi tempi essa si fosse un poco allentata, neanche alla vigilia della partenza era scomparsa del tutto. E chi li conosce comprese che in quel momento, sulla Luna, essa rifioriva.

«Neil, sei pronto a farmi uscire?».
«Sì, ma aspetta un secondo. Prima lascio scorrere la corda. Okay?».
«Okay. L’hai scorsa, Neil. Ora sei pronto a farmi scendere?».
«Sì, un attimo…».
Ce li faranno vedere molto amici quando, insieme, li porteranno in giro per questa Terra. Ce li racconteranno fratelli, possono non esser fratelli due uomini che sono stati insieme sulla Luna? Certo. Loro due ad esempio non lo sono per niente. Toccava a Aldrin, che era ai comandi del Lem, e non a Armstrong, dire: «Qui, base della Tranquillità; l’Aquila è atterrata», e sulla Luna toccavano a Aldrin tante altre piccole o meno piccole cose che invece Neil Armstrong volle fare da sé. Vedi, nemmeno a contatto con l’infinito un uomo diventa grande se in lui non v’è grandezza. Andar sulla Luna non ci rende certo migliori.
«Neil, sei pronto a farmi uscire?».
Armstrong: «Tenterò di sorvegliare il tuo Plss. Ma hai visto che razza di difficoltà ho avuto prima?».
Aldrin: «Roger. La macchina da presa è nella posizione giusta?».
Armstrong: «Roger. Mi pare che il tuo Plss vada bene. Prosegui. Le scarpe ora sono proprie al limite della soglia. Okay; ora lascia scivolare giù il Plss. Ecco, bravo, bene. Perfetto».
Avresti detto che Armstrong contribuisse a sdrammatizzare, qualsiasi fosse la ragione. Ma non era stato lui il primo, il primo, il primo? E per quanto fosse difficile trovare la passerella e la scala non era stato lui ad affrontare per primo la passerella e la scala? Non era tutto più semplice, ora, per Buzz?
«Okay, Buzz. Sei proprio al limite della passerella».
Aldrin: «Okay. Però rientro… con un piccolo movimento del piede… all’inizio della passerella. Piego un poco le spalle… spero di andare bene… perché voglio chiudere un po’ lo sportello. Stando attento a non bloccarci fuori, però».
Armstrong: «Questa mi sembra una gran bella idea. Attento a non chiuderci fuori».
Lo disse con ironia, o forse con umorismo, ma Aldrin non è molto sensibile né all’una né all’altro. E non raccolse.
«Questa è la nostra casa per le prossime ore, Neil. Voglio averne cura».
Chiuse un po’ lo sportello, tornò. «Okay, Neil. Sono sul primo scalino e posso vedere i piattelli delle zampe del Lem. Ora sono sul secondo scalino, ora sul terzo. È molto semplice scendere».
Armstrong: «Sì l’ho trovato molto comodo e anche camminare, anche camminare è molto comodo. Hai ancora tre passi da scendere e poi quello lungo».
Aldrin: «Okay… lascio il piede dov’è… abbasso l’altro… metto le mani su un piolo… ora faccio lo stesso con…».
Armstrong: «Ecco… bene. Giù… Abbassa ancora il piede… giù… ce l’hai fatta. È un bel saltino, eh? Circa tre piedi». E Aldrin fu a terra; pieno di esclamazioni gioiose.
«Bello! Bello!».
Armstrong: «Non è straordinaria questa vista? Proprio una vista magnifica».
Aldrin: «Magnifica è la definizione giusta, Neil».
E anche lui fece i primi passi, e provò a correre e gli piacque, e continuò. Anche lui notò che la superficie era sabbiosa, porosa, anche lui si mise presto a raccogliere gli esemplari di suolo e di sassi, e tale era la disinvoltura con cui si muovevano entrambi che sembrava andassero in cerca di funghi, in una campagna priva di alberi, immersa in un silenzio rotto solo dal frinire dei grilli. «Tu le hai trovate le rocce rosse?». «Sì. Sono piccole e scintillano… si direbbe biotite». Riempirono la prima scatola, fissarono alla gamba del Lem la famosa placca che dice: «Due uomini giunti dal pianeta Terra misero piede per la prima volta sopra la Luna, nel luglio del 1969 dopo Cristo». E spostarono la macchina da presa della tv e la misero abbastanza lontana perché si vedesse il Lem per intero, loro insieme al Lem, e di tanto in tanto Armstrong ci regalava una lezioncina di geologia, spiegando le rocce che vedevano, le colline, i crateri, mentre Aldrin tentava di dire la sua senza troppo successo giacché il comandante gli portava sempre via la parola.
Ma poi accadde il colpo di scena che avrebbe causato il dramma. Accadde 45 minuti dall’uscita di Armstrong, quando Collins riapparve all’orizzonte, sorgendo come una stella.
«Houston, Houston! Qui Columbia, Columbia! Che succede laggiù?».
«Procede tutto bene, splendidamente. Credo che fra poco pianteranno la bandiera», rispose Bruce McCandless.
«Straordinario, straordinario!».
«Mike, tu sei l’unica persona al mondo che non possa vederli in tivù».
«Non importa, non importa. Sono contento lo stesso. Funziona bene la tivù?».
« È bellissima, Mike. Davvero bellissima».
«Oh, come sono contento! Hanno abbastanza luce?».
«Sì, sì Mike. E ora hanno tirato fuori la bandiera. Puoi vedere le stelle e le strisce della nostra bandiera sulla superficie lunare».
«Che bellezza, Bruce, che bellezza!».
Armstrong e Aldrin avevano tirato fuori la bandiera americana, una normale bandiera di stoffa ma sostenuta da una intelaiatura di fili d’alluminio. E con non pochi sforzi, a furia di martellate, l’avevan piantata proprio dinanzi al Lem. Lì ora stava, rigida come una bandiera di latta, a nutrire la nostra sorpresa giacché c’eran state tante discussioni sull’opportunità di portarla o no sulla Luna e sembrava che avessero vinto quelli secondo i quali la cosa non sarebbe apparsa di eccessivo buon gusto. La sorpresa più grossa però non fu nemmeno la bandiera, che, buon gusto o no, gli americani avevano tutto il diritto di tirare fuori. O il colpo di scena che resterà alla storia come la telefonata lunare di Nixon. Voci eran corse, negli ultimi giorni, sulla possibilità che essa avvenisse: ma neanche i pochi che ci avevano creduto si aspettavano un intervento così discutibile.
Sicché ecco Buzz Aldrin e Neil Armstrong sugli attenti, ecco Neil Armstrong che risponde con il suo discorsino imparato a memoria perché lui prima della partenza sapeva, ecco Buzz Aldrin che risponde col saluto militare portando la mano destra al casco, e la macchina da presa che inquadra loro due, il Lem, la bandiera. Nell’auditorium si udì un lamento soffocato: «Oh, no!», e qualcuno osservò, finalmente, quanto è umiliante pensare che quei due uomini scelti a rappresentare tutti gli uomini erano stati volontari in Corea, dove avevano gettato quintali di bombe, di napalm, su villaggi indifesi. Qualcuno osservò, umilmente, che in quel momento, proprio in quel momento, centinaia di creature stavano morendo in Vietnam; uccise dagli uomini che son tanto bravi, tanto intelligenti, tanto coraggiosi, sanno andare sulla Luna e sbarcarci e camminarci, poi sulla Terra si ammazzano come le bestie. Solo qualcuno, si intende, infatti la gran maggioranza degli americani seduti dinanzi alla televisione apprezzarono molto la trovata di Nixon, e anche nell’auditorium balzarono in piedi applaudendo, un applauso più lungo di quello scoppiato otto ore prima per l’allunaggio. Labbra tremanti, occhi lucidi, lacrime, e il primo a commuoversi fu proprio Armstrong: come dimostrò la sua voce rotta da un principio di pianto, e il suo cuore prese a battere quasi impazzito sicché le pulsazioni salirono da 90 a 125 e poi a 150. Come quelle di Aldrin, oltre tutto causando un consumo maggiore di ossigeno: mentre la cerimonia rubava minuti preziosi e preparava il dramma che nessuno avrebbe notato ma che per un pelo rischiò di lasciarli lì sulla Luna.

Continua...
La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che quella cosa ha un senso,
indipendentemente da come finirà

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Re: Ultime notizie

Postby S-Bahn » Tue 07 July 2009; 11:46

Parte seconda...

Quattro minuti son tanti quando vai sulla Luna con molte cose da fare e una scorta limitata di ossigeno. L’intrusione di Nixon era appena cessata che i due astronauti si accorsero di aver perso tempo eccessivo. Allora, colti da una fretta che gli ignari scambiarono per euforia, si precipitarono a fare le cose, dare le informazioni che non avevano ancora dato: con un’intesa che ormai metteva da parte ogni rivalità, od ostilità.
Aldrin: «Vorrei dimostrare i vari modi che una persona ha di camminare sulla superficie della Luna. Okay, questo è il passo del canguro: saltare a piedi uniti in avanti. Così si evita di ruotare il corpo muovendo un piede per volta. Bisogna stare attenti a tenere la rotta che segue il centro di massa: a volte ci vuole la distanza di due o tre passi per ricadere sui piedi. Non mi sembra una soluzione buona come si credeva».
Armstrong: «Il salto del canguro funziona, ma non mi sembra buono come il modo convenzionale spostando un piede dopo l’altro. È difficile dire cosa è meglio, ma a mio parere il meglio è il passo normale che uso ora. Ci si stanca un po’ dopo qualche decina di metri, ma forse dipende da questa tuta, non dal passo».
Aldrin: «Il colore blu delle mie scarpe è completamente scomparso sotto questo colore del suolo che gli si è appiccicato. E che non saprei come descrivere. Diciamo un marrone cenere. Copre gran parte delle mie scarpe di piccolissime particelle».
Armstrong: «Queste rocce sembrano di basalto e probabilmente contengono il due per cento di minerali bianchi: questi cristalli bianchi. Credo che i crateri piccoli siano il risultato di piccoli meteoriti, che hanno colpito la superficie».
Ma erano indietro di tante cose da fare. La raccolta dei sassi con cui riempire la seconda scatola. L’impianto degli strumenti scientifici per misurare il vento solare, per trasmettere le scosse sismiche alla Terra, per raccattare le possibili spore sospese nel vuoto. Altre fotografie. E dopo ci sarebbe stato da sistemare a bordo le scatole, e Neil Armstrong era lì da un’ora e 40, Buzz Aldrin da un’ora e 20, ben presto sarebbe scaduto il periodo di tempo consentito dal Plss. In tale consapevolezza si affaccendavano come laboriose formiche, ma neanche questo bastava, dovettero chiedere, un supplemento di 15 minuti che il Centro controllo accordò. A condizione che fossero 15 minuti per Armstrong, dieci per Aldrin, e non di più. Di qui il dramma.
Armstrong: «Houston, qui Neil, di quanto siamo in ritardo, ora?».
Bruce McCandless: «Presto non avrete che dieci minuti per completare tutte le operazioni sulla superficie, Neil».
Armstrong: «Capisco».
Bruce McCandless: «Vi interesserà sapere, Neil, che il sismografo appena piazzato ci ha trasmesso qualche segnale da cui risultano brevi oscillazioni».
Armstrong: «Bene. Ma siamo indietro. Buzz sta piantando il tubo per estrarre dal sottosuolo il campione di Luna».
Aldrin: «Houston, spero che vediate la fatica, è duro a piantare questo tubo nel suolo, farlo scendere di cinque pollici non è facile».
Bruce McCandless: «Roger…».
Aldrin: «Fatto, Bruce. Ora lo tiro fuori. Strano! Sembra quasi bagnato».
Bruce McCandless: «Neil e Buzz, qui Houston…».
Aldrin: «Un minuto, un minuto Bruce!».
Armstrong: «Houston, aspettate un minuto».
Bruce McCandless: «Vorremmo che prendeste un altro campione del sottosuolo e sistemaste lo strumento per il vento solare. Chiudo».
Aldrin: «Fatto. Intanto tu potresti occuparti delle rocce, Neil».
Armstrong: «Speriamo di averne il tempo».
Bruce McCandless: «Buzz, qui Houston. Vi restano all’incirca tre minuti, Buzz. Dovete terminare tutto entro tre minuti. Chiudo».
Aldrin: «Roger. Capisco».
Facevano pena, si soffriva per loro. Vederli affannati così per riprendere il tempo perduto nelle cerimonie presidenziali, negli alzabandiera. E quell’ossigeno che diminuiva diminuiva. Per la fatica e la preoccupazione le pulsazioni di entrambi erano salite a ben 165.
Bruce McCandless: «Buzz, Buzz, manca un minuto!».
Aldrin: «Roger».
Bruce McCandless: «Neil, è tempo di chiudere la vostra Eva».(Extra vehicular activity, cioè l’attività all’esterno del Lem).
Bruce McCandless: «Vorrei ricordarvi anche di togliere i film dalle macchine fotografiche e dalle macchine da presa prima di tornare sul Lem».
Aldrin: «Okay. Ne hai qualcuno con te, Neil?».
Armstrong: «No, le macchine sono sotto la Mesa, devo prendere i film quando ripongo le scatole. Ora raccolgo diversi frammenti di roccia vescicolare».
Bruce McCandless: «Devi fare in fretta, Neil. In fretta».
Aldrin: «Quelle rocce, non le hai mica documentate, Neil?». (Nel programma era richiesto che almeno una parte delle rocce raccolte fossero catalogate con la descrizione del punto in cui erano state raccolte e l’enumerazione delle pietre nelle immediate vicinanze).
Armstrong: «Ancora no».
Aldrin: «Temo che non ce ne sia più il tempo, Neil».
Bruce McCandless: «Neil e Buzz, guardiamo di fare presto con quei film da togliere alle macchine e con la chiusura delle scatole che contengono le rocce. Siamo davvero in ritardo, Neil e Buzz. Vogliamo lasciare un po’ di margine a quell’ossigeno che vi portate addosso».
Armstrong: «Roger…».
Aldrin: «Aiutami, Neil. Infilami questo in tasca mentre io mi avvio verso la scaletta, io lo reggo, tu aprimi la tasca».
Armstrong: «Lascia andare la tasca».
Aldrin: «Fatto».
Armstrong: «Okay».
Aldrin: «Adios, amigo».
Armstrong: «Okay».
Aldrin: «Bruce, vuoi nulla prima che salga?».
Bruce McCandless: «No».
Aldrin: «Su vieni, Neil».
Armstrong: «Okay».
Aldrin: «Neil, hai preso…».
Armstrong: «Sì sì. È lì, è lì».
Aldrin: «Hai tolto i film?»
Armstrong: «Sì sì».
Aldrin: «Okay, vado avanti».
Armstrong: «Okay».
Aldrin salì su per la scaletta facendo un salto che lo portò quasi al terzo scalino. Su, in volo come un angelo. Armstrong invece restò giù a fissare alla terra il cavo di alluminio. Poi Aldrin fu sulla passerella e cominciò a far scorrere la corda per tirar su le scatole. Tutte le macchine da presa, le macchine fotografiche, gli utensili, erano stati abbandonati dentro un’altra scatola che sarebbe rimasta per sempre ai piedi del Lem. Il peso doveva essere equilibrato fino all’ultimo grammo e le rocce pesavano abbastanza da compensar tutto ciò che veniva buttato via.
Aldrin: «Lascia andare ora, Neil, non penare più. Lascia andare, ci penso io a questo. Tu affrettati».
Armstrong: «Allora mentre ti occupi di quello io tolgo i fili della Hasselblad».
Bruce McCandless: «Neil, qui Houston. Vogliamo un controllo dell’Emu. Chiudo. (Extravehicular mobility unity, cioè il contenitore dell’ossigeno che si portano alle spalle).
Armstrong: «Roger. Tre virgola otto. Ho 54 sul due e nessuna bandiera» (La bandiera è un segno di allarme che si accende quando qualcosa non va. Ad esempio l’ossigeno).
Aldrin: «Anch’io».
Bruce Me Candless: «Ve la cavate ancora bene con il Plss. Ma svelti!».
Aldrin: «Come va. Neil?».
Armstrong: «Okay. Ho agganciato anche la seconda scatola e puoi tirarla su».
Aldrin: «Okay. Porgimela e io la tiro. Bene, così, piano».
Armstrong: «Un momento, un momento. Buzz…».
Aldrin: «Okay. Presa. Ti senti meglio ora, Neil?».
Armstrong: «Andiamo, andiamo, Buzz!».
Armstrong salì sulla scaletta senza quel volo di angelo. Si arrampicò velocemente piolo per piolo, e fu sulla passerella. Ora le loro scorte di ossigeno stavano davvero per estinguersi. Le avevano pompate per ben due ore e 40 minuti, il tempo limite. Un po’ di più e sarebbero soffocati. Li vedemmo sparire dentro il Lem e di nuovo essi diventarono due voci e basta.
Voce di Aldrin: «Okay, inarca la schiena, Neil. Bene. C’è posto, c’è posto. Metti la testa giù, così. Muovi il piede dallo sportello».
Voce di Armstrong: «Okay».
Voce di Aldrin: «Lo sportello è chiuso a scatto e sprangato. Siamo dentro, al sicuro».
Era mezzanotte passata, vedemmo chiudere quello sportello e poi udimmo Bruce McCandless che ne informava Mike Collins: «Columbia, Columbia, qui Houston, l’equipaggio della base della Tranquillità è rientrato nel Lem e ha ripressurizzato la cabina. Tutto è andato splendidamente. Chiudo».
E Mike Collins rispose: «Alleluia».
Anche l’antenna televisiva e la camera da presa erano state abbandonate sulla superficie lunare. Così, dopo che lo sportello fu chiuso, la televisione continuò a trasmettere l’immagine ferma di quella bandiera e del Lem. Li guardavi, soli in mezzo a quelle rocce, e ti sembrava di aver vissuto un sogno di cui restava solo una fotografia. Poi anche il contatto con la televisione fu tolto e sullo schermo non ci fu più nulla e ci dissero che Armstrong e Aldrin s’erano messi a dormire.

We did it, ce l’abbiamo fatta
L’alba si levò con l’angoscia, quel lunedì 21 luglio. A mezzogiorno e 55 il Lem avrebbe acceso i motori e il destino dei primi due uomini giunti alla Luna si sarebbe deciso, insieme alla loro leggenda. Vie di mezzo non ne esistevano: o il Lem si alzava o non si alzava. Se non si alzava, o si alzava male, non c’era nulla da fare fuorché sperare che morissero bene e senza troppe sofferenze.
A Houston si riempirono di nuovo le chiese, due astronauti cattolici furono visti entrare, quasi di nascosto, nella chiesa di Nassau Bay, andare dritti all’altare dove il prete celebrava la messa e comunicarsi. Uno era Richard Gordon cioè colui che nell’Apollo 12 prenderà il posto di Mike Collins. Aveva sempre detto di nutrire nel Lem la più totale fiducia, ma come gli altri sapeva che se teoricamente non c’era ragione per cui il Lem non si alzasse, praticamente ciò era possibile: il Lem non era mai stato collaudato sulla Luna, cioè in condizioni totalmente diverse come la mancanza di atmosfera e la diversa gravità. Dalla chiesa, Gordon andò direttamente al Centro controllo, dove presto arrivò anche Pete Conrad, il comandante dell’Apollo 12, e senza una parola, pallido, egli sedette accanto al Capsule Communicator che di nuovo era l’astronauta Ron Evans. Il Centro controllo era pieno come il pomeriggio dell’allunaggio, Ron Evans stava comunicando con Mike Collins che aveva appena concluso la sua ventitreesima orbita intorno alla Luna: l’uomo più solo dell’intero universo. Alla ventunesima orbita, Collins aveva esclamato a Ron Evans: «Mi sto affezionando al registratore come a una persona, perché quando sono dall’altra parte è l’unico che mi ascolti. Ron, solo Adamo fu così solo prima di me. Ma lui stava nel paradiso terrestre».
Armstrong e Aldrin furono svegliati alle otto, ora di Houston. Dai computer si sapeva che avevano fatto un buon sonno e che non c’era stato bisogno di pillole tranquillanti: la fatica degli ultimi 30 minuti sopra la Luna li aveva stroncati, insieme all’emozione. Alle prime battute con Evans apparvero riposati, tranquilli. Le pulsazioni erano normali: tra i 70 e gli 80. «Come si dorme lassù?», chiese Evans. «Oh, non c’è male», rispose Aldrin, «se si è molto stanchi si dorme benissimo. Neil si è fatto una specie di amaca tra lo sportello e il coperchio del motore, io mi sono raggomitolato sul pavimento. Ho le ossa malconce ma mi sento benissimo».
Vi fu un’ora di dialogo strettamente tecnico, e poi Aldrin passò la parola a Neil Armstrong che fece una specie di riassunto della sera avanti. Molti ebbero l’impressione che egli volesse spiegare tutto prima del decollo e nel caso che il decollo non fosse avvenuto. Parlava preciso, cattedratico. Di nuovo descrisse i tipi di roccia osservati e raccolti, in gran parte basalto, in buona parte monocristalli, di nuovo sottolineò la straordinaria varietà delle forme e dei tipi, di nuovo elencò i crateri e quello vicino al quale si era posato.
«Bella descrizione, Neil», interruppe Ron Evans, «ma ce le dirai a Terra queste…».
«Lasciami continuare», rispose Neil Armstrong.
Egli pensava che la tragedia potesse anche avvenire. Ma con una freddezza che all’allunaggio non aveva mostrato. Con altrettanta freddezza si congratulò con il Centro controllo che era finalmente riuscito a individuare il punto esatto in cui avevano stabilito la base, pochi metri a ovest del cratere Juliette, e spiegò che con gli strumenti di bordo lui non c’era riuscito, poi rifiutò le notizie del giorno.
E l’ora difficile, la più difficile, giunse. L’ora in cui due tonnellate e mezzo di carburanti avrebbero incominciato a bruciare nel motore d’attesa del Lem e a spingerlo verticalmente a una velocità di 6,068 piedi al secondo, fino a portarlo a 60mila piedi dalla superficie lunare, metterlo in orbita, farlo agganciare all’astronave di Collins, iniziare il lungo viaggio di ritorno alla Terra. Ora tutti potevano udire, i misteri erano finiti. E le voci erano limpide mentre i numeri della conta a rovescio si vedevano veloci sul monitor.
Ron Evans: «Tranquillità, vi mancano dieci minuti e tutto va bene. Potete inserire il modulo automatico».
Buzz Aldrin: «Roger. Inserito modulo automatico».
Neil Armstrong: «Ambedue le batterie Ed sono sul “go”. Chiudo».
Ron Evans: «Neil, ti leggo sul Vhf e hai l’aria di sentirti a posto».
Neil Armstrong: «Sissignore, non potrebbe andar meglio».
Ron Evans: «Tranquillità, qui Houston. Meno due minuti e tutto va bene».
Aldrin: «Controllate la direzione di guida sull’Ags. Chiudo».
Armstrong: «Tutti i segnali di navigazione sono sul “go”. Chiudo».
Ron Evans: «Qui Houston. Tranquillità: meno 50 secondi. Pronti per l’accensione. Chiudo».
Armstrong: «Pronti per l’accensione».
Aldrin: «Avanti. Otto. Sette. Sei. Cinque. Quattro. Motore di ascesa inserito. Tre. Due. Uno. Accendo. Su! Eccolo là il nostro cratere».
Armstrong: «Mille piedi. Duemila, Duemiladuecento. Tremila. Ce l’abbiamo fatta!».
Ron Evans: «Dio ti ringrazio. Il mondo intero, ragazzi, vi stava tirando su. Dio, ti ringrazio».
Più tardi il medico di volo ci informò che le pulsazioni di Aldrin erano un poco salite, ma quelle di Armstrong erano rimaste rigorosamente ferme a 80. Più tardi ci dissero che Ron Evans era sudato, in preda a un tremito convulso. E con lui Pete Conrad, il suo equipaggio e anche Von Braun e Chris Kraft (uno dei top manager del Centro, ndr) e molti altri. Più tardi ci dissero che è più pericoloso decollare con un aereo di linea dagli aeroporti di Roma o New York che con il Lem dalla Luna e alle 4 e 35 del pomeriggio ci dissero che neppure il docking con l’Apollo aveva presentato problemi: stavano tornando a casa. E fu tutto. Semplicemente. Così. Sarà altrettanto semplice, d’ora innanzi, il nostro destino?


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Re: Ultime notizie

Postby brianzolo » Tue 07 July 2009; 12:07

ricordo bene quella notte in bianco, ero dai nonni in veneto :wink:
ha toccato ha toccato, no no ruggero non ha toccato, ma si che ha toccato.....
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ridateci Freedrichstrasse!
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Re: Ultime notizie

Postby trambvs » Fri 10 July 2009; 17:38

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Ma lo sanno quelli di StudioAperto che l'URSS non esiste più da quasi 20 anni?! :shock:

Pixelvendoli!! :mrgreen:
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Re: Ultime notizie

Postby Trullo » Fri 10 July 2009; 17:51

:lol:
La prossima volta che fanno i servizi da Napoli, a Studio Aperto si collegano con la capitale delle Due Sicilie?
"Il comunismo ha sbagliato, ma non era sbagliato.“ (Rossana Rossanda)
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Re: Ultime notizie

Postby skeggia65 » Sat 11 July 2009; 1:15

:shock: Non ci posso credere!
:lol: :lol: :lol: :lol: :lol: :lol:
Articolo 21
Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

Anche se "alea iacta est": Freedrichstrasse!

Se la musica è troppo alta, tu sei troppo vecchio.

Nella vita nulla si deve temere; si deve solo comprendere. Maria Sklodowska Curie
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